Nomadi dell’arte genovese tra i talenti di Colonia

Colonia (Germania) – Un David di Michelangelo di zucchero sotto una teca di vetro piena di formiche che lo divorano, un cristo con la cintura esplosiva circondato da meravigliose ancelle desnude, un robot che costruisce sculture automatiche al ritmo di musica e le stampine dei Wharol e dei Lichtenstein vendute a cinque zeri nell’aria satura di patatine fritte, currywurst e warsteiner.
L’ Art Fair 21 di Colonia – fiera internazionale di arte contemporanea giunta all’ottava edizione – è un contenitore enorme che ti lascia ubriaco anche se non bevi, in cui la mediocrità del già visto, delle fotografie banali esposte in enormi fomati costosissimi si mischia alla grandezza formale dell’idea nei talenti giovani e vecchi, affermati ed emergenti. Nel contesto post-industriale dello Staaten Haus – la “casa degli stati”, costruita nella prima metà degli anni venti, nel parco che in questo momento riflette il giallo dell’autunno sul Reno – la potenza espressiva di questa manifestazione sta proprio nell’affiancamento di artisti provenienti da culture, generazioni e condizioni di produzione così diverse da risultare, per un paradosso che solo l’arte sa ricucire, compatibili. Questa sovrapposizione si realizza anche grazie alle abilità organizzative, alle agende grondanti di “contatti” e appuntamenti, di una persona come Yasha Young, artista, curatrice, gallerista, nome sacro per gli addetti ai lavori, capace di racchiudere all’interno dello stesso involucro chi con l’arte si è comprato la mercedes e chi ancora raccoglie le bottiglie di vetro vuote da restituire al bar in cambio di una piccola moneta da reinvestire in un’altra bevuta (nel Nord Europa la raccolta differenziata è incentivata a ogni livello). Camminando in questo spazio così grande da farti sentire piccolo, compartimentato in corridoi in cui la distanza tra il pavimento nero e il soffitto attraversato da luci e tubi di ogni specie quasi ti schiaccia, capita di incontrare due artisti genovesi, una nata al Lagaccio, l’altro ligure d’adozione. Un po’ orfani, un po’ nomadi, animati dalla migliore e cocciuta tradizione marinaresca, Arianna Carossa e Fabio Moro navigano a vista nel mare magnum del mercato dell’arte, lontani dalla nostra terra bella (che in tedesco tradurremmo come Heimat), compressa tra il mare e l’appennino.
“Un artista deve portarti in una dimensione di vuoto tra l’immaginato e la realtà, un po’ come quando qualcuno ti fa il solletico e non sai se ti piace o ti infastidisce”. Capelli e occhi scuri, un bel sorriso duro segnato da mille esperienze, da Largo San Francesco da Paola a New York City passando per un mulino di Ceranesi convertito in studio, Arianna Carossa, genovese classe 1973, si laurea all’accademia ligustica di belle arti e inzia a guadagnarsi da vivere come illustratice per una nota casa editrice producendo disegni per la medicina. Artista professionista dall’età di ventisei anni, appassionata pittrice con i vestiti punteggiati da macchie di vernice di tutti i colori, Arianna ha un curriculum artistico impressionante e ama la sua città anche se sembra che qui quasi nessuno si sia accorto di lei. “Genova è come un paio di scarpe belle, ma strette e scomode. La pittura non mi bastava più. Utilizzo oggetti comuni, che ora va di moda definire duchampiani, che attraverso una ferita si fondono in un corso autonomo caratterizzato da altre regole.” E così l’erotismo di Bataille viene perforato e incastonato in una corince di legno sotto la quale ai buchi corrispondono spine, un guard rail diventa circolare come metafora degli opposti galileiani che si toccano e i mobili si spezzano in due in un fluire bipolare che si infrange contro la parete.


Continuando a passeggiare alla deriva, distratti ora da una modella incredibile truccata come la moglie di Frankenstein, ora dallo sguardo artificiale di una scultura in lattice che sembra viva, arriviamo nello spazio di Fabio Moro, allestito come museo ironico e dissacrante in cui le grandi opere del rinascimento sono interpretate in uno stile unico tra il fumettistico e il puerile. Artista tautatore che incide la pelle con la macchinetta con lo stesso tratto con cui colora le tele a pastello, Fabio è nato in un piccolo paese vicino a Pompei nel 1972 e si è laureato in scenografia presso l’accademia di Napoli. “Ho concluso gli studi per rispetto verso i miei genitori che mi hanno aiutato. Ho sempre preferito frequentare le aule di pittura perchè uno può disegnare ovunque, ti basta un foglio e una penna. Un giorno il cameriere. Un giorno il barista. Un giorno l’elettricista come mio padre. Uno dei milioni di disoccupati con un piccolo diploma in tasca. Qui non mi resta altro che inventarmi una professione.” Fabio ha la mano buona, a vent’anni inizia a produrre disegni per un tatuatore, guadagnandosi da vivere dipingendo ritratti per le famiglie ricche, vendendo magliette autoprodotte in piazza, allestendo piccole scenografie nei locali, finchè un amico non gli concede la propria pelle consentendogli di inziare il mestiere di artista del tatuaggio che, per una serie di circostanze impossibili a raccontarsi, lo porterà ad aprire a Genova uno studio in Vico San Bernardo nel 2004. “Ho vomitato tutta la mia depressione artistica nel tatuaggio – prosegue Moro – provando a iniettare in forma di china la storia dell’arte nella pelle dei miei clienti. La mia personale ricerca è tesa alla convergenza della stessa cifra stilistica con gli strumenti del tatuatore sull’epidermide e con quelli del pittore sulla tela. Il mio prossimo progetto sarà tatuare quadri di pelle sintetica in lattice.”
All’Art fair 21 di Colonia c’è anche lui, in uno spazio di dieci metri quadri pagato di tasca propria che sembra molto più grande per la presenza di sua figlia Ludovica, due anni e mezzo, un’energia inesauribile e una borsa piena di bambolini con le braccia tatuate da scarabocchi primordiali, abituata a viaggiare per le convention di body art di mezza Europa.


Sculture scappate fuori da un film di fantascienza, tele enormi in cui l’acrilico si sovrappone a mille altre tecniche, performer scalmanati che ti rincorrono, bottiglie di champagne stappate per ogni vendita anadata buon fine, abbigliamenti eccentrici, make up pesanti, artisti sedicenti e persone umili che lavorano, sorrisi gentili e l’inglese parlato con un accento durissimo.
Ispirati, continuiamo a percorrere questo spazio come un’intercapedine tra la fantasia e il mondo reale, e se il vero viaggio non consiste nel calcare marciapiedi nuovi, ma nel rinnovare a ogni passo il proprio sguardo, si potrebbe continuare a camminare per questi corridoi per giorni e giorni senza annoiarsi, anche rimanendo fermi, anche tenendo gli occhi chiusi.

immagini e testo di Davide Pambianchi
pagina de Il Secolo XIX del 04 11 2010

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