Nel vivere e descrivere il centro storico, lo scorso Maggio, dopo una bella levataccia per fotografare e pensare in Vico del Campo, scrissi questo post emotivo, lo ripropongo senza modificarne una virgola, ma non immaginavo quale occasione avrei avuto per la seconda parte qui di seguito o per una terza su cui mi sto documentando.
Gli argomenti attorno a cui ruotano le critiche che sento sempre più aspre nei miei riguardi sono troppi e troppo complessi, penso riguardino quello che ciascuno pratica ogni mattina per arrivare alla sera e che mi trascendano quando si riferiscono al mercato dell’editoria. Non vorrei trincerarmi dietro l’orrenda frasetta da mercenario proletario: “è il mio lavoro”, nè tanto meno spiegare che non scelgo io le parole che accompagnano le mie foto sui giornali, ma vi partecipo con nome e cognome e devo esserne responsabile, per quanto sentirsi “dalla parte del torto” sia davvero spiacevole. Piuttosto, se servisse, vorrei inziare da quelle finestre, una sulla prostituzione dei dieci euro a sampierdarena, l’altra sul commercio all’ingrosso dei fiori per i venditori ambulanti del centro storico.
Il titolo è vecchio di un anno: la guerra per i soldi, che in questo caso diventa pure guerra per i soldi miei. Le informazioni che mi portarono ad affacciarmi a quelle finestre sono state di provenienza freak, tutt’altro che “di stato”, poveri tra poveri, per i soldi dei poveri. Avevo nel cervello l’opera da due soldi di Brecht, in particolare nel servizio sui fiori, pensavo alla poesia del fiore che appassice diventando merce, alla filiera capitalistica che si riporoduce con la stessa struttura nei diversi strati sociali, quelle leggi dialettiche dell’economia che si propongono ogni qual volta della merce sia scambiata, con dell’altra o con del denaro. Lì per lì ero anche contento di fotografare una fase primitiva del commercio, l’ingrosso, camion che arrivano dalla Sanremo bella alla Genova brutta degli aperitivi “no, grazie”, “no, grazie”, “no, grazie”, ti ho detto “no, grazie”.
In seguito all’articolo apparso la mattina dopo, sono tornato tre volte in Vico del Campo, presentandomi in quanto autore di quelle immagini e raccogliendo il materiale del post successivo “A guerr pè sord – parte 3”. Insieme a un amico giornalista, ci hanno mostrato le ricevute, le fatture, i ceritificati di attribuzione della partita iva, addirittura i contratti di affitto dei magazzini, ma vorrei tornare ai servizi che non sono piaciuti, in particolare, riguardo ai fotogrammi sulla prostituzione a Sampierdarena, un commentatore in youtube mi ha scritto “segaiolo perbenista”, per quanto proprio non mi ci senta. L’immagine in campo molto lungo, notturna a venticinquemila iso, della prostituzione dietro i cespugli, sullo sfondo del traffico e dei contenitori (per un pelo da quel terrazzo non mi entrava anche la lanterna …), aveva per me un certo valore estetico in sè, muta nonostante il transito dei camion, in un intorno in cui la prostituzione è diventata categoria ampissima e strutturale, da quando la forma di merce ha pervaso ogni ambito della vita. Certo, lo sanno tutti, che dagli amplessi a dieci euro che ho fotografato ai corpi venduti sui banchi del parlamento ci sia una certa differenza, ma io ho voluto soltanto fare la foto, anche per un discorso mio personale sul rapporto tra fotografia e vita, catalizzato dal sopravvivere di questo da una decina d’anni ormai. Ad esempio, i fotografi che utilizzano i corpi nudi non di persone, ma frontalmente di modelle, svolgono un processo che va proprio in direzione contraria a quel che, modestamente, vorrei provare a fare io.
Sul piano personale vorrei aggiungere che, sarà che viviamo nella società delle telecamere e dei social network in cui il voyeurismo di stato si confonde con le frustrazioni degli utenti singoli, il potere non penso abbia mai avuto bisogno delle mie immagini per ingabbiare nessuno, anche perchè editoria privata e poteri dello stato costituiscono ambiti separati, per quanto i giornali li leggano un po’ tutti, dai poeti ai miltari che scrivono poesie.
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