Genova – RI TRO VA TO !
Le lavoratrici qui degli indoratori, freak e a questo punto sorelline mie
– per noi sei di famiglia –
me l’hanno trovato e custodito.
GraZIE !!!
Resisteva da quindici anni pur senza avere mai visto il sole, una dozzina di metri di linee e colori tracciati con la vernice spray sul muro del sottopassaggio di via Cadorna, davanti alla stazione Brignole. Un pezzo misconosciuto di storia dell’arte contemporanea, il cui valore è difficilmente quantificabile sia in ambito economico, sia (soprattutto) culturale.
Cancellato nell’agosto dello scorso anno con un’anonima mano di ignoranza tinta di giallo.
Nonostante fosse abbandonato al degrado dell’entropia urbana, come scriveva qualche anno fa Silvia Pedemonte su questo giornale, dopo aver resistito anche ai vandali più accaniti, è caduto sotto le pennellate di un tentativo raffazzonato di riqualificazione del sottopasso, per fare da sfondo soffocato, qualche giorno dopo, alle tristemente note scritte di ispirazione puerile o calcistica.
L’autore di quel dipinto perduto si chiama Phase II, al secolo Lonny Wood, newyorkese classe 1955, leggenda vivente di una nicchia culturale e artistica, tanto contemporanea da mancare di una storiografia sistematica, dal nome secco: “writing”, scrivere.
Nei primi anni settanta, armato – e la parola non è usata in senso del tutto metaforico – di bombolette spray, insieme ad altri precursori, Phase II dipingeva il proprio nome sui vagoni della metropolitana di New York, in una forma di rivendicazione esistenziale che diffondeva il proprio alfabeto dalla perferia al centro, correndo sui binari del trasporto pubblico. Quello stesso urlo ancestrale che, a passi di breakdance sul ritmo della musica rap, in una quindicina di anni si è rapidamente diffuso in tutto l’occidente assumendo le caratteristiche ora di “sottocultura”, ora soltanto di moda. (Moda peraltro discutibile, caratterizzata da braghe larghe, vestiti oversize e cappellini da baseball con la visiera dritta).
Un codice di linee, lettere e nomi innestato frontalmente nel tessuto urbano che, a causa dei suoi natali intrinsecamente illegali, non viene quasi mai considerato nei suoi aspetti puramente estetici ed espressivi. Anche se non può essere commercializzato nelle gallerie senza essere snaturato, come un pino marittimo che non si può trapiantare, anche se non può essere compreso quando viene slegato dai suoi presupposti primordiali di intervento attivo su un circostante che opprime, il writing ha una sua digità artistica che gli viene ormai riconosciuta anche negli ambienti più conservatori della cririca d’arte.
E il buio di un muro genovese ne ospitava un prezioso esempio storico ormai perduto,
Nel 1995, attraverso una straordinaria interazione tra il Comune e il liceo artistico Paul Klee (ora Klee – Barabino), diverse classi di studenti cambiarono il volto ai sottopassaggi di Genova, nell’ambito dell’iniziativa “ColoriAmo”, con la A tanto maiuscola da avere un successo enorme, diventare un caso unico in Italia ed essere seguita a modello in altre città. In questo felice contesto nacque la collaborazione con Claudio “Sid” Brignole, genovese, pioniere nazionale del writing e all’epoca direttore della mitica rivista di cultura underground “Aelle Magazine”, che porta a dipingere il maestro newyorkese Phase II nel sottopassaggio di via Cadorna.
“Guarda, per come era stato ridotto, con quelle scrittacce, nascosto dietro la bancarella del fiorista, è quasi meglio che sia stato coperto”. Informato via mail dell’avvenuto scempio, la risposta dell’ex-direttore Sid inizia subito amara. “Il fatto grave è che nessuno si sia mai minimamente reso conto che quel graffito fosse un’opera d’arte di valore inestimabile, realizzata da uno dei padri fondatori di una cultura espressiva diffusa in tutto il mondo. Ed è una caratteristica, non vorrei sembrare polemico, tipicamente ligure, questa di non essere in grado di valorizzare il proprio patrimonio. Pensa che a Pisa è stato recentemente protetto sotto vetro un muro con un graffito di Keith Haring…”
Mentre gli studenti del “klee” continuano a decorare i sottopassaggi nonostante il freddo dell’inverno, le foto sgranate del dipinto genovese di Phase II, cancellato in un eccesso di vandalismo culturale, testimoniano il destino, transitorio e mutevole, dell’arte che nasce e muore sulla strada.
ColoriAmo, con la A maiuscola, per restituire i sottopassi ai genovesi
ColoriAmo. Con la A maiuscola. Un progetto che da più di quindici anni inietta colori nel grigio dei sottopassaggi genovesi, in un’interazione virtuosa tra amministrazione comunale, liceo artistico e soggetti privati. Nato nel novantacinque da un’idea di Piero Villa, all’epoca assessore nella giunta del sindaco Adriano Sansa, del funzionario del comune Valter Bertolazzi e del profesorre del liceo artistico Paul Klee (ora Klee Barabino) Franco Buffarello, fu inaugurato con la serie di murales a tema “Falsi d’autore” sotto piazza Portello. Un sottopassaggio decorato dopo l’altro, finanziato da sponsor privati, ColoriAmo piacque alla cittadinanza così tanto da diventare un caso unico in Italia ed essere seguito a modello in altre città, un’occasione di visibilità nazionale per quella Genova che sarebbe diventata capitale europea della cultura nel 2004.
“Non sprecare troppo colore, con il vento si asciuga subito. E metti i pennelli a bagno, che altrimenti si seccano e poi li butti via.” Franco Buffarello, pittore, caricaturista, ripetente perpetuo, 56 anni di cui una quarantina trascorsi al liceo artistico genovese, prima da studente e poi da professore, è ancora lì con i pennelli in mano insieme ai suoi studenti, con la terza U del Klee Barabino a dipingere il logo di Euroflora nel sottopasso che porta al quartiere fieristico.
“Questa è la nostra aula 19, – con un’accumulazione di macchie di vernice sui pantaloni, continua Buffarello senza smettere di dipingere – per i ragazzi è un’occasione impagabile, è come se marinassero ufficialmente, facciamo lezione per la strada e respiriamo la città mentre la decoriamo.”
“Pensa che nel nostro liceo gruppi di studenti e professori organizzano lezioni pratiche fuori dall’orario scolastico, – racconta Daniele Guasco, con l’entusiasmo dei suoi diciasette anni disegnato sul viso – il liceo artistico esiste soltanto in Italia e questa esperienza nei sottopassi contribuisce a proteggerlo dalla crisi della cultura.”
“Quando inziammo il comune si trovò di fronte a qualcosa di enorme, nessuno si sarebbe aspettato tanto successo, tutti coloro che vi parteciparono ne furono entusiasti, la definirei davvero una piccola magia, vissuta negli ultimi seidici anni da migliaia di persone, – aggiunge Buffarello, mentre fa qualche passo indietro per dare uno sguardo d’insieme al murales – nata per sottrarre al degrado i sottopassi e restituirli alla cittadinanza con la mediazione dell’arte.”
Stando attenti a non urtare i barattoli di vernice sparsi sulla strada, sotto lo sguardo affrettato del mutevole pubblico fluido dei passanti, in un’atmosfera in cui l’odore di vernice si disperde nel vento, sarà forse per quella A maiuscola, l’esperienza genovese di coloriAmo continua.
La neve sui marciapiedi, che a ogni passo diventa più dura e scura, emette sotto le suole un suono che nessun micorofono può registrare. Il cielo, in questa stagione, sopra Berlino rimane in bianco e nero per settimane. Come in un video accelerato, i tralicci delle gru si muovono veloci sopra i palazzi, braccia sovraumane artefici della perenne trasformazione urbanistica di questa capitale, rasa al suolo e ricostruita al ritmo delle tragedie che hanno scandito il ventesimo secolo.
In una scala di grigi tra la terra e il cielo, i colori delle pubblicità non ti accecano, le architetture non ti schiacciano e il giallo della metropolitana funziona meglio del teletrasporto dei telefilm di fantascienza anni settanta. Al finestrino, personaggi enormi ti guardano ad altezza occhi, l’arte si integra nel tessuto urbano fino a diventarne parte organica, arrampicandosi sulle facciate dei palazzi nella forma di un astronauta alto cinquanta metri o di un tizio in giacca e cravatta ammanettatato nei suoi rolex d’oro.
Meravigliosamente a pezzi, Berlino è indebitata con il resto della Germania produttiva, quella di Amburgo e Francoforte, con il pil in salita oltre il quattro per cento l’anno, per aver investito i finanziamenti ricevuti per la ricostruzione della città nella costruzione delle persone, affermandosi nel giro di due decenni come cantiere culturale permanente al centro dell’occidente.
Tre milioni e mezzo di abitanti, di cui il quindici per cento con passaporto estero, tra i quindicimila italiani residenti, in questa Berlino che sa convertire le diveristà tra le persone in materia prima preziosissima, ci sono anche tre genovesi che da diversi anni sciacquano nelle Sprea (il fiume della capitale) le suggestioni artistiche accumulate in una vita trascorsa nei vicoli del centro storico.
Imbacuccato in una bella giacca verde, appoggiato a un’enorme trave di metallo blu, mentre ci aspetta, sembra quasi che Francesco Cassi regga con la schiena tutta la stazione della U-bahn di Jannowitzbrücke. Due decenni di percorsi espressivi, dalla direzione artistica del Tulse Luper Book in Turin del maestro Peter Greenaway all’ultima mostra collettiva con pezzi di Bansky e Sir Peter Thomas Blake (sì, proprio lui, proprio quello che ha disegnato la copertina del Sgt Pepper dei Beatles nel ’67), dall’audioviso alla tela, il buon Cassi, genovese classe 1974, dopo stagioni di lotte a colpi di pennello e pennarello dal magazzino Hardcore Bricolage in Vico del Duca, ha trovato la propria stablità da due anni e mezzo a Berlino.
“Sì, va beh, ma non è mica Disneyland, la crisi la senti anche qui, ci sono un sacco di disoccupati, è dura, – racconta Francesco, quasi volesse smorzare l’inevitabile infatuazione berlinese – il mare è lontano, fa un freddo cane, ma tant’è…” Ma tant’è in Italia non ci sono posti come il Bethanien, ospedale evengelico ottocentesco a Mariannenplatz, nel distretto di Kreuzberg, occupato nel ’70 da un gruppo di cittadini e successivamente riconosciuto dallo stato in quanto “Künstlerhaus, casa degli artisti”, in cui gli spazi e i mezzi di produzione vengono condivisi con l’unica finalità dell’espressione degli individui, praticando attivamente forme sempre rinnovate di comunicazione tra le persone. Spiato dalla storia della grafica appesa ai muri, nei laboratori saturi di acidi che furono sale operatorie, Francesco produce serigrafie in cui i segni calligrafici si ripetono strato su strato fino a diventare simboli, come fossero ideogrammi contemporanei generati da un alfabeto inintelligibile.
Il secondo protagonista di questo breve viaggio tra gli apolidi genovesi dell’arte, artefici di una forma di mobilità tanto attuale da poter essere definita “emigrazione 3.0”, si chiama Alessandro Lupi e in questo momento sta svernando in Thailandia. Per intervistarlo bisogna ricorrere a Skype. Trenacinque anni per un metro e novanta, un sorriso perpetuo dietro una bella barbetta castana, è famoso in Europa per la tecnica originale con cui realizza densità fluorescenti, dipingendo uno a uno fili di poliestere con pigmenti che assorbono la luce nera di Wood per resituirla in forma di scultura evanescente. Da due anni residente nella capitale tedesca, laureato presso l’accademia ligustica di belle arti, rappresentato dalla Galleria d’arte contemporanea Guidi e Schoen in vico Casana, Alessandro gioca con la luce fin da bambino, da quando desiderava costruire una torcia che emettesse un fascio di buio. “Berlino non ce la fa più, è una città martire, un’isola intima che ti accoglie, il mito del denaro è morto, i ricchi non lo ostentano e non lo sprecano, – dall’altra parte del monitor, in un internet cafè di Bangkok, l’entusiasmo di Lupi non viene interrotto neppure dalla connessione a singhiozzo – qui le persone non ti chiedono che lavoro fai, ma cosa fai, chi sei, è diverso, si respira un concetto dello spazio pubblico avanzatissimo, ho aperto la partita iva in dieci minuti, la burocrazia è semplice, i politici sono persone serie, un parco verde dietro l’altro …”. Dieci anni di esposizioni da Cuba a Lubiana, appena rientrato in Germania, Alessandro dovrà smontare “Lichtung, luce nella radura”, la sua ultima installazione presso l’Art Campus berlinese di Halle am Wasser e catalizzare le idee per un nuovo lavoro, da portare con Guidi e Schoen alla Fiera d’Arte di Bologna prevista per fine gennaio 2011.
Un codice di scritte enormi che colano dai tetti, adesivi, targhe, disegni, lettere incastonate nel fluido mosaico artificiale di travi, semafori, distributori automatici, vagoni della metro, scale e strisce pedonali. In bilico tra l’arte e il vandalismo, l’intervento attivo sul tessuto urbano e l’illegalità, la street art, di cui la città del Muro non poteva che essere capitale naturale, è stata accettata in quanto forma espressiva da abili operatori del mercato dell’arte contemporanea, che hanno saputo strapparla dalla città per introdurla nelle gallerie in cambio di denaro.
“Ho inziato dal writing, dipingendo sui muri per la strada, come milioni di ragazzi su tutto il pianeta, quello che faccio nasce dall’asfalto e dal cemento, e ad esso si ricongiunge spontanemente”. Nato a Cagliari nel 1978, a Genova fin da bambino dopo un grave lutto in famiglia, il liceo artistico Paul Klee lasciato a metà, la prima esposizione a quattordici anni, l’attività da restauratore nella Cattedrale San Lorenzo abbandonata perchè soffriva di veritgini, Oscar Colombo non indossa sorrisi, ma a Berlino ci si trova benissimo. “I miei personaggi – dipinti su carta e attaccati per le vie con la colla da tappezziere – sono feriti, ma in senso positivo, l’aria tedesca li sta curando, avvolti nelle bende e sanguinanti, si trovano a prorio agio con gli sguardi dei passanti, che si fermano a osservare, scattano foto e qualche volta li staccano e se li portano a casa”. Con un affitto ragionevole in una bella casa insieme alla sua fidanzata, con un lavoro da chef in un ristornate di lusso e un’attività artistica da non dormire la notte, Oscar, per quanto gli manchino da morire gli amici, l’odore del centro storico e la focaccia, forse, in Italia, non ci tornerà proprio più.
Mentre, appiccicati per le vie, i personaggi feriti di Colombo, progressivamente guariscono, Berlino ci saluta con affetto sulle scale della stazione di Kottbusser tor, dove anche i pusher algerini hanno l’aria affidabile e c’è una cabina per fototessere chimiche in bianco e nero, perfetta sotto i neon di quel corridoio grigio, che sarebbe degna del MoMA di New York. Si curano, sulle pareti della città che fu divisa dal muro più eretto, scavalcato, metaforicamente abbattuto e ricostruito della storia del novecento, quel Berliner Mauer che separava due visioni del mondo opposte, mentre, come fosse stato cosa viva e urlante, ispirava nel dolore generazioni di artisti e pensatori.
scacciati senza colpa
li chiamavi le mondine
con la speranza in cor
e nell’utero
ed era per voi sfruttati
che sono incatenato alle mie lacrime
al par di un’idea d’amor
anonimi che restate
compagni
da forti
la vendetta che non ci occorre
ma a quel plurale
e tu che non hai la forza di discacciarmi
che a quella repubblica non ci appartieni
in faccia all’avvenir
non accuso nessuno in sè
senza tregua
gli sputi in bocca
la pace scritta in rosso
la guerra agli oppressor
d’altrui si rende
addio cari compagni
p.s.
cercherei di fornire una linea organica
a tutte le suicide notes che vorrete mandarmi
fatelo
anche senza presentarsi
in vico indoratori 2
la mail la trovi
pure se non sei un profilo di spam
ALBERO
su uno scoglio battuto dalle onde,
marcio di salsedine trafitto da un sole immobile
resiste,
arcigno caparbio un pino storto e nano, arcigno caparbio,
resiste,
affonda le radici nella poca terra,
corroso da un vento carico di mare si torce si flette ma non si lascia andare,
rimane abbarbicato a quell’esile sperone
volontà di esserci, volontà di farcela
se ripenso adesso a quel pino storto e nano,
mi dà coraggio più di stupide parole
che mi dico ogni giorno per non lasciarmi andare,
quel pino storto e nano arcigno e caparbio.
TREE
on a rock hit by the waves rotten by salt,
pierced by a still sun a sulky, stubborn, crooked and dwarf pine
resists
sulky stubborn
resist
plunges its roots in few soil corroded by a sea-full wind it twists,
bends but never surrenders it remains clung to that thin spur
will of being will of succeeding
if i think now of that crooked dwarf pine
it gives me courage more than stupid words
which i talk to myself every day not to surrender
that sulky stubborn crooked dwarf pine
Che bello, aver fatto qualcosa insieme!
L’hardcore questo,
still standing, o almeno mi pare,
qualcosa che non finisce senza ripetersi!
Bella Kafka!
ore 3:19, dice qui sopra a destra.
con mio fratello a fumare.
deviazione numero uno,
piano bi zero.
in qualunque periferia.
su qualunque superficie.
cola.
nero inferno.
numero uno.
al canile,
che di selezionati intenzionali,
con un cuore artificiale,
non ne volgiamo.
le ferite,
gli sputi.
che sono bacini.
senza scopi,
senza tregua.
tuoi.
Chirstiane F scendeva le scale di Kottbusser Tor,
dove pure i pusher algerini hanno la faccia affidabile.
Caterina Fieschi leccava il pavimento sotto le mie ciabatte serbe.
(A C. F. bruciava parecchio.)
Che ne tenevo quattro,
anche se la mia compagna ha una gamba sola.