Sei
meno cinque
uno
ordinati per contare e numerare
mi scappa da pisciare
addosso a te
che tieni il meno del cuore a destra
e il più del piacere a sinistra
Koln – Arfair 21 / Blooom – four cams for four days’ time lapse video
MoroF’s Family
cutting Chopin and painting: MoroF, pictures and editing: Davide Pambianchi
Questa immagine qui sopra non fa la faccia da fotografo,
ti ci inciampi,
come avviene anche quando sbatti contro le persone.
Ma no Pambi, dovresti
e basta,
dovresti pensare solo al lavoro.
Ma.
Sì, negli effetti tutto bene,
(gli affetti fanno rima, ma vorrei starne fuori),
nelle cause c’è qualcosa che non va.
Critico della separazione,
il lavoro,
quando questo è inteso nel senso della sua organizzazione sociale,
è categoria separata dalla vita.
Ma.
Quando lo si guarda dal punto di vista del sè,
come l’attività che trasforma la materia,
sull’ascissa che è la sostanza che ci attarversa,
il tempo,
il lavoro torna ad aderire alla vita.
Nell’arte (nel post di qualche post fa),
questa distinzione viene ricucita.
E così l’opera si riappiccica alla vita,
coalesce con essa perchè torna ad esservi solubili.
Il solvente è l’empatia sociale,
di cui mi scoppia il cuore,
ma,
eppur,
questo non basta.
(Sarei meno triste se potessi farti felice.
Pianticella agonizzante,
ti potrebbe salvare solo un po’ di diluvio universale.)
Al Terminal uno dell’Aeroporto di Malpensa ti puoi pure inciampare nell’illusione di Biancaneve
opera automatica n° 02 di Ludovica Moro
foto e dida emotiva mia
Colonia (Germania) – Un David di Michelangelo di zucchero sotto una teca di vetro piena di formiche che lo divorano, un cristo con la cintura esplosiva circondato da meravigliose ancelle desnude, un robot che costruisce sculture automatiche al ritmo di musica e le stampine dei Wharol e dei Lichtenstein vendute a cinque zeri nell’aria satura di patatine fritte, currywurst e warsteiner.
L’ Art Fair 21 di Colonia – fiera internazionale di arte contemporanea giunta all’ottava edizione – è un contenitore enorme che ti lascia ubriaco anche se non bevi, in cui la mediocrità del già visto, delle fotografie banali esposte in enormi fomati costosissimi si mischia alla grandezza formale dell’idea nei talenti giovani e vecchi, affermati ed emergenti. Nel contesto post-industriale dello Staaten Haus – la “casa degli stati”, costruita nella prima metà degli anni venti, nel parco che in questo momento riflette il giallo dell’autunno sul Reno – la potenza espressiva di questa manifestazione sta proprio nell’affiancamento di artisti provenienti da culture, generazioni e condizioni di produzione così diverse da risultare, per un paradosso che solo l’arte sa ricucire, compatibili. Questa sovrapposizione si realizza anche grazie alle abilità organizzative, alle agende grondanti di “contatti” e appuntamenti, di una persona come Yasha Young, artista, curatrice, gallerista, nome sacro per gli addetti ai lavori, capace di racchiudere all’interno dello stesso involucro chi con l’arte si è comprato la mercedes e chi ancora raccoglie le bottiglie di vetro vuote da restituire al bar in cambio di una piccola moneta da reinvestire in un’altra bevuta (nel Nord Europa la raccolta differenziata è incentivata a ogni livello). Camminando in questo spazio così grande da farti sentire piccolo, compartimentato in corridoi in cui la distanza tra il pavimento nero e il soffitto attraversato da luci e tubi di ogni specie quasi ti schiaccia, capita di incontrare due artisti genovesi, una nata al Lagaccio, l’altro ligure d’adozione. Un po’ orfani, un po’ nomadi, animati dalla migliore e cocciuta tradizione marinaresca, Arianna Carossa e Fabio Moro navigano a vista nel mare magnum del mercato dell’arte, lontani dalla nostra terra bella (che in tedesco tradurremmo come Heimat), compressa tra il mare e l’appennino.
“Un artista deve portarti in una dimensione di vuoto tra l’immaginato e la realtà, un po’ come quando qualcuno ti fa il solletico e non sai se ti piace o ti infastidisce”. Capelli e occhi scuri, un bel sorriso duro segnato da mille esperienze, da Largo San Francesco da Paola a New York City passando per un mulino di Ceranesi convertito in studio, Arianna Carossa, genovese classe 1973, si laurea all’accademia ligustica di belle arti e inzia a guadagnarsi da vivere come illustratice per una nota casa editrice producendo disegni per la medicina. Artista professionista dall’età di ventisei anni, appassionata pittrice con i vestiti punteggiati da macchie di vernice di tutti i colori, Arianna ha un curriculum artistico impressionante e ama la sua città anche se sembra che qui quasi nessuno si sia accorto di lei. “Genova è come un paio di scarpe belle, ma strette e scomode. La pittura non mi bastava più. Utilizzo oggetti comuni, che ora va di moda definire duchampiani, che attraverso una ferita si fondono in un corso autonomo caratterizzato da altre regole.” E così l’erotismo di Bataille viene perforato e incastonato in una corince di legno sotto la quale ai buchi corrispondono spine, un guard rail diventa circolare come metafora degli opposti galileiani che si toccano e i mobili si spezzano in due in un fluire bipolare che si infrange contro la parete.
Continuando a passeggiare alla deriva, distratti ora da una modella incredibile truccata come la moglie di Frankenstein, ora dallo sguardo artificiale di una scultura in lattice che sembra viva, arriviamo nello spazio di Fabio Moro, allestito come museo ironico e dissacrante in cui le grandi opere del rinascimento sono interpretate in uno stile unico tra il fumettistico e il puerile. Artista tautatore che incide la pelle con la macchinetta con lo stesso tratto con cui colora le tele a pastello, Fabio è nato in un piccolo paese vicino a Pompei nel 1972 e si è laureato in scenografia presso l’accademia di Napoli. “Ho concluso gli studi per rispetto verso i miei genitori che mi hanno aiutato. Ho sempre preferito frequentare le aule di pittura perchè uno può disegnare ovunque, ti basta un foglio e una penna. Un giorno il cameriere. Un giorno il barista. Un giorno l’elettricista come mio padre. Uno dei milioni di disoccupati con un piccolo diploma in tasca. Qui non mi resta altro che inventarmi una professione.” Fabio ha la mano buona, a vent’anni inizia a produrre disegni per un tatuatore, guadagnandosi da vivere dipingendo ritratti per le famiglie ricche, vendendo magliette autoprodotte in piazza, allestendo piccole scenografie nei locali, finchè un amico non gli concede la propria pelle consentendogli di inziare il mestiere di artista del tatuaggio che, per una serie di circostanze impossibili a raccontarsi, lo porterà ad aprire a Genova uno studio in Vico San Bernardo nel 2004. “Ho vomitato tutta la mia depressione artistica nel tatuaggio – prosegue Moro – provando a iniettare in forma di china la storia dell’arte nella pelle dei miei clienti. La mia personale ricerca è tesa alla convergenza della stessa cifra stilistica con gli strumenti del tatuatore sull’epidermide e con quelli del pittore sulla tela. Il mio prossimo progetto sarà tatuare quadri di pelle sintetica in lattice.”
All’Art fair 21 di Colonia c’è anche lui, in uno spazio di dieci metri quadri pagato di tasca propria che sembra molto più grande per la presenza di sua figlia Ludovica, due anni e mezzo, un’energia inesauribile e una borsa piena di bambolini con le braccia tatuate da scarabocchi primordiali, abituata a viaggiare per le convention di body art di mezza Europa.
Sculture scappate fuori da un film di fantascienza, tele enormi in cui l’acrilico si sovrappone a mille altre tecniche, performer scalmanati che ti rincorrono, bottiglie di champagne stappate per ogni vendita anadata buon fine, abbigliamenti eccentrici, make up pesanti, artisti sedicenti e persone umili che lavorano, sorrisi gentili e l’inglese parlato con un accento durissimo.
Ispirati, continuiamo a percorrere questo spazio come un’intercapedine tra la fantasia e il mondo reale, e se il vero viaggio non consiste nel calcare marciapiedi nuovi, ma nel rinnovare a ogni passo il proprio sguardo, si potrebbe continuare a camminare per questi corridoi per giorni e giorni senza annoiarsi, anche rimanendo fermi, anche tenendo gli occhi chiusi.
immagini e testo di Davide Pambianchi
pagina de Il Secolo XIX del 04 11 2010
E tra le situazioni contro cui la cronaca ti può portare a sbattere,
mentre – proprio come un asino la carota – insegui un odore inusitato di vaniglia,
davanti alla banca nazionale del lavoro a Genova in Piazza Dante,
ieri sera alle nove e mezza,
c’è un’accumulazione di bottiglie di latte parmalat ad alta digeribilità.
Come una buonanotte che non si può più ingoiare,
la relazione tra il marchio parmalat e la categoria di banca.
Come la conoscenza scivola su una gerarchia inclusiva di proposizioni così tanto ragionevoli che le devi prendere cosí come sono, io correrei da te.
Fuori dai locali, le sedie rovesciate sopra i tavoli aspettano la mattina come io te, che sono capovolto mille volte.
Ti ho nella forma di parola sulla punta della lingua puzzolente di ritter alle fragole e kölsh, the only language u can drink, il dialetto di queste parti sul Reno.
Pezzo di Pravda che sfuggi all’uomo come il tempo.
No dai, aspetta un attimo. Fai presto, rifiuto, resisto.
Cara parola mia. Bàgnati. Bagnàti.
Dai. Ti aspetto. Un attimo. Eccoti. Non mi vieni. Mi attrai e ti ritrai.
A tratti tratti e ritratti. Ma come?
Le mie migliori energie per te. Uffi. Piuttosto dimmelo.
Questa pelle nera sintetica riflette quel quadro della coca cola su cui mi sono specchiato.
Ti aspetto ancora un po’ mentre provo a pensare ad altro.
Ma perchè non vieni. Ogni istante mi sembra, ma no.
Ma cavolo, assomiglia a una funzione ma non è neppure una primitiva sua.
Neppure un teorema. Neppure le parole che non si ascoltano.
I mammiferi preistorici.
Che ci avevano bisogno di coccole pure loro, pure se erano alti cinque metri.
Ti aspetto, cara parola mia che non arrivi.
Non fosse tardi ed esistesse, lo chiederi a qualcuno che lo sa.
Mi sa che devo uscire. Lo so che mi cadrai in testa come la deformità nel post di un post precedente. Bicchiere svuotato. Ora esco e vado a cercare Julicher Straße.
Che parolina bella sarai abituata, in larga compagnia,
al vilipendio di una riga di frustrati, che te li schiaccio con un dito.
William Burroghs, per non parlare degli amici suoi,
mi sta un po’ sul cazzo, but love my penis cut in two.
Magari ti devo aspettare dormendo.
Madonna quanto vorrei scrivere “eccoti qui”. Ma ti penso e non arrivi.
Eppure sei solo una parola.
Ho perso il telecomando, anche se li so costruire tutti.
Citofono e provo a dormire.
Che tanto lo so, mi stai chissà dove, per quanto mi sia dato.
Ti incontro in sottoripa e sei l’ennesimo cagnaccio.
Tu che lo sei, dimmela.
Guarda che per me, tertium datur est!
Svegliamoci insieme tutte le mattine.
Parolina Bella.
Vado a dormire.
Un processo attiguo rappresentabile, innestato su quello cognitivo.
Che tanto io qui potrei pescare a caso tra i dischi che non ho rotto e tirare fuori roba che parrebbe interessante pure a chi manco la capisce.
Ti posso tirare fuori la carnalità che manco ti sei sognata.
Madonna che condanna vivere in una società di persone stupide, fosse per me straremmo nell’internazionale comunista in cui ognuno dà per quello può e riceve per quello di cui ha bisogno.
La Storia dell’uomo è il racconto della persecuzione della soddisfazione dei suoi bisogni sociali.
La Storia è la storia dei bisogni.
Facci sto goal di capoccia, che lo puoi pure giocare con le pinne, che a me il calcio mi fa cagare e gli stadi li tratterei la domenica col Ziklon B per svegliarmi in un lunedì migliore.
Un processo.
Si muove, ma non è come il capitale o l’amore che per esistere deve crescere, l’arte, per essere, basta che fluisca, nel solco che ora vi descrivo.
Essendo il malcontento ben più diffuso della sua condanna teorica, l’arte deve ricucire il paradosso del creare distruggendo, deve essere finalizzata a una parola che piange un torrente di virgolette: superamento.
Il cazzo del cazzo di coglione del cazzo che si pensa un cazzo di artista deve perseguire il proprio superamento individuale tendendo, in equilibrio su un asintoto – come un cazzo di equilibrista del cazzo che cammina su una cazzo di corda tesa tra due cazzo di torri che col cazzo che ora esistono ancora – al superamento dello status quo.
(Mentre quelle cazzo di torri del cazzo crollavano, chi scrive, studiava la vagina della Vita e pensava agli occhi aperti di quel cazzo di pilota del cazzo davanti alla morte)
(Tu morirai con gli occhi aperti?)
(O chiusi?)
(Io non so)
Io non ce n’ho il cazzo di eiaculare come un coglione del cazzo.
Testo e illustrazione mia.
Riproduci pure, coglione del cazzo.
To be continued sweet.
What the fuck is Heimat?
Heimat è la patria interiore, ecco qui la traduzione: patria interiore.
Un Rolex al polso amputato della zampa tatuata di un maiale morto in campo fucsia.
Grazie Stefan Strumbel, che ritrovo un po’ del mio pensiero formalizzato in un’immagine tua, e te la compro pure nella sua forma di oggetto, che per me sono file, che per me erano sottili lamine d’argento e non esistono finchè non vado in edicola.
Stefan, capita che i miei amici nel reale siano miei nemici di classe.
Stefan, capita pure di averne amata un po’ una.
Stefan, ma cosa te ne frega a te, che quella è forse l’unica immagine tua buona.
Ma cazzo.
Capita. Capita perché se nessuno può scegliere dove nascere, qualcuno deve scegliere da che parte stare.
Io sto dalla parte di chi non può che vendere la propria forza lavoro.
Il valore nasce solo così, dal sudore e dall’ingegno, come l’Amore è figlio della povertà e dell’intelletto.
Poi va beh, dopo l’accumulazione originaria, si è visto che il capitale produceva interesse e hanno scambiato, hanno scambiato, scambiare è cosa ben diversa dal produrre, la borsa, hanno scambiato lo scambiare con il produrre, ma se gli oggetti non venissero prodotti, cosa ci sarebbe da scambiare?
Io sto dalla parte di chi colora i muri e di Brecht, che diceva che il criminale è chi le banche la fonda, non chi le rapina.
E ora che l’ho scritto, capisco di avere anch’io un piano B.
E a chi mi dice che era roba dell’ottocento, rispondo che la fisica è rimasta la stessa dalla nascita dell’universo, e anche forse dal Prima, e che le leggi che la modellano sono così, perché la matematica è fatta così, perché il cervello è fatto così. E non penso neppure abbia senso parlare di uomo in sè, che nasce, cresce e assorbe nel sociale, che altrimenti sarebbe un involucro vuoto, che altrimenti manco saprebbe parlare o camminare, che altrimenti non sarebbe.
L’individuale crolla davanti al sociale e si consola nel duale.
Prezzo e valore sono due categorie distinte e in questa fiera, dove vengono esposti oggetti in vendita relativi al mercato dell’arte contemporanea, mi cade in testa un esempio.
Formalmente, il valore di un’opera d’arte dipende soltanto dalle ore di lavoro impiegate nella sua realizzazione – e le ore di lavoro sono ore, e hanno lo stesso valore per tutti gli uomini, da Rosa Luxemburg a Capezzone (uno così non lo devi manco toccare, uno così no, no no) – mentre il suo prezzo è funzione di una marea non numerabile di contingenze.
Scrivo in italiano da un divano in Germania, su un dispositivo progettato in America, costruito da qualche parte in oriente, vivificato da un software codificato a pezzi in tutto il pianeta.
Follow me on twitter, find me on facebook, look at my pictures on flickr, suck and spit me in the ashtray.
testo e foto mie, di Davide Pambianchi,
che per me puoi pure riprodurre quel che ti pare,
che tanto in testa ci hai la segatura e, come dice Sandrino mio,
mangi crusca e caghi legno.
Voglio odorare
Il sapore celeste del ferro
Voglio vedere
Il profumo sanguigno del fuoco
Esiste lo so
Non tutti possono
Tendendo le braccia
Afferrare la sorte
Schiaffeggiarle la faccia
Renderla solida ed obbediente
Renderla tenera, incandescente
A ja Ljublju SSSR
A ja Ljublju SSSR
Il fuoco di un cuore
Che incendia la mente
Può fondere il gelo
Del marmo: bollente!
Onoro il braccio
Che muove il telaio
Onoro la forza
Che muove l’acciaio
Esiste lo so
A ja Ljublju SSSR
A ja Ljublju SSSR
Grazie Giovanni,
ho l’erba e voglio e do l’aggiunta e alle volte mi fermo quando voglio.
Voglio odorare, voglio guardare, ma come posso?
Pay attention.
Even in such days the walls can hear and silly free speeches can lead to predation.
Keep silence, don’t wear any smile, apples should be tasteful.
Dimmelo tu Giovanni,
come posso,
al momento mi basterebbero quattro righe sul mio breve soggiorno pietroburghese del Gennaio 2010.
(Giovanni si chiama anche mio padre, che è un po’ incazzato e c’ha le sue buone ragioni.)
Sono passati dieci mesi, minchia zio fa’, dieci mesi: conto il tempo con le lancette su un braccio e il sistema di riferimento sull’altro, scrivo oggi su tutte le pagine di tutte le agende, tengo una folla con cui ci mungiamo scambievolmente, ho anche fatto un giretto sui balcani da Belgrado a Sarajevo, passando per Pristina e Podgoriza, la vecchia Titograd, mi spacca il basso dell’amico tuo, Giovanni, ottomila watt, tengo immagini femminili meravigliose e tengo pure una ducati tutta nera come le magliette mie.
Eh sì Giovanni, chiedi a ’77 se non sai come si fa, chiedi ai comunisti, che loro sì che l’amore lo sanno praticare, hanno bisogno di coccole specifiche, peccato che al vilipendio delle parole sia seguito quello delle categorie e così è come se non ci fossimo più.
Sì Giovanni, è un dato di fatto, a Stalingrado non passano.
Sì Giovanni, osare la confusione, il cielo è sopra è sotto, ci si può solo perdere.
Eh sì Giovanni, io alla linea ci morirò fedele, anche se non c’è, ma è la mia, in spalletta sui giganti, che in realtà sono tanti piccoletti uno sopra l’altro.
E mi vengono a dire fedele alla linea, va beh, Giovanni, ascolto radio Kabul e ti leggo dritto dritto da questo taccuino (so expensive in Russia) da fighetto – che sono riuscito a non perdere – quel che scrissi là all’epoca:
Il russo è una lingua ricca, ma per le due categorie di pace e mondo c’è una parola sola: MIR.
Gli atei di tutti i paesi hanno la propria chiesa qui fuori attraccata sulla Neva.
Grigia e morbida come l’acciaio, da qui è partita la più forte spinta evoluzionista nella storia dell’uomo.
I russi non hanno mai perso una guerra, su Mosca non è mai passato nessuno, sono morti in ventisette milioni per spazzare via il nazismo dalla Terra.
L’europa ringrazia la loro storia con il delirio comparativo da talk fucking show tra Hitler e Stalin, tra il capoitalismo di stato scambiato per comunismo e la dittatura intesa senza coscienza.
E cosa importa se qui un uomo con la debolezza di amare come Brecht sia misconosciuto, lui sapeva che nulla di quel faceva l’autorizzava a sfamarsi, che mancava a chi ha sete un bicchiere d’acqua, che forse sarebbe stato intenzionalmente dimenticato.
I russi sanno che il popolo va guidato con mano ferma e per loro non è tollerabile la disgregazione della loro madre patria, tantopiù quando la direzione separatista si muove in direzione contraria a quella del pianeta.
La Terra gira da ovest verso est e San Pietroburgo è otto ore nel futuro rispetto a New York.
Forse per una forma di empatia che identifica la terra con la Terra, la Russia è l’unico posto al mondo in cui i nazionalisti possono anche essere delle brave persone.
Se tu ti proponessi di recitare te, su questi marciapiedi le scarpe suonano diversamente, i nasi – quando non spariscono per la fantasia degli autori – sono meravigliosamente all’insù e i ballerini del teatro Mariinsky mostrano a quale superiore ordine di bellezza la disciplina possa condurre.
D’altra parte, dall’altra parte c’è un uomo nero grandioso per i più che sembra non lasciare gli ammalati poveri per strada, ma ha la prestesa di esportarsi tra le beghe altrui, e lo fa solo per i soldi, per i soldi.
Dall’altra parte, la sfiga degli sfigati ha viaggiato nella forma di lettering dalla periferia al centro sui vagoni della metro.
In questo mezzo europeo contingenete non ci si domanda più da che parte stare.
Perchè la domanda è malposta e non ha senso proseguire oltre.
Ma il tempio pagano dell’uomo è attraccato qui fuori, sul fiume di lacrime che ha preso a calci il Dottor Stranamore.
Eh sì che l’anima mi si volge a te, anche se.
Foto mie, testo di Giovanni e mio, qui ce ne sono altre.