Ultimo post affrettato e meditato, prima di partire per una settimana a San Pietroburgo.
Mentre dietro all’editor di testo c’è l’ispettore Callaghan che spara su Rai 4, ecco come Carlo Freccero spiega il détournement nell’introduzione alla società dello spettacolo (Debord, Parigi, 1967), dell’edizione pubblicata da Baldini&Castoldi nel 1997:
Una parola che significa dirottamento, deviazione, una sorta di straniamento dal testo originale.
– Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto di essere divenuta citazione: frammento strappato dal suo contesto, dal suo movimento e in definitiva dalla sua epoca.-
Il détournement è un’appropriazione indebita.
…
– Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. … –
Il dètorunement della categoria del plagio, di cui l’immagine qui sopra è un primo esempio, si può definire come un’attribuzione indebita, mediata dall’empatia: amare un autore, interiorizzarne l’opera, produrre un lavoro e firmarglielo senza chiedere nulla.
“Rayografia di una lettera anomina – Man Ray – Parigi 1923 ” è una foto contemporanea di cronaca ripresa con l’iPhone, ottenuta da Emmanuel Radnitzky appoggiando la propria idea su un foglio di carta fotosensibile senza l’uso di lenti.
Il dètorunement del plagio non copia e tantomeno falsifica, riporta al presente gli aspetti migliori del passato.
Ognuno degli aspetti sintetizzati in questo grafico grezzo andrebbe trattato puntualmente.
Nella teoria questi blocchi rappresentano l’ossatura di tutto un discorso che deve ancora essere scritto e nella pratica un flusso di azioni ripetitive teso alla fotografia.
L’unico termine elettronico della “revisione sul monitorino”, se eliminato, svincola il grafico dal caso particolare della fotografia digitale.
Al centro, i due blocchi del focheggiare e dell’esporre sono appaiati perchè le due azioni, almeno al momento dello scatto che le fissa, sono contemporanee.
Aveva piovuto per due giorni e il cielo si stava rapidamente rasserenando, l’aria del primo Dicembre era tersa.
Nella vigna sul mare del golfo del Tigullio si prospettava un tramonto memorabile.
Come spesso accade per amara metafora, lo spettacolo davvero interessante si stava manifestando nella direzione opposta: la luna piena un dito sopra le colline illuminate dall’ultima luce rossa del sole.
Le condizioni che determinano un’esposizione così uniforme si verificano per un minuto al giorno.
Considerando che la luna fosse piena si arriva a un minuto al mese.
Se si volessero considerare anche le condizioni atmosferiche si potrebbe forse giungere a un minuto all’anno.
Ma alla fine era quel minuto lì e basta, anzi meno, un duecentesimo di secondo, a seicentoquaranta iso, con il duecento millimetri a f/5,6, il bilanciamento del bianco della D700 sul preset del sole e il buon salvataggio secco in jpg fine.
I rami più vicini nell’inquadratura sulla destra erano di un pino marittimo che con la terra aggiunge l’odore della resina al vino.
We need some discipline here.
Come tutte le attività impegnative, la scrittura impersonale implica l’astrarsi rispetto al lato emotivo della propria condizione.
(l’astrazione divenuta automatica si trasforma in alienazione)
Così per scrivere qualche riga su una settimana di esplorazione newyorkese non si dovrebbe pensare all’incrociatore Aurora a San Pietroburgo.
E neppure all’impegno dell’anno per il 14 Gennaio 2010 che fu presentato dicendo che in porto non ci sono robot a scaricare le navi. E ieri in porto c’è morto Gianmarco Desana e aveva 37 anni.
Guardando bene si nota che i marciapiedi sono tutti uguali e così la differenza tra quelli di Jay Street e della Prospettiva Nevskij è dovuta alle scarpe che li calpestano.
Meglio lasciare andare le immagini mute e leggere con l’altro occhio – per chi ce l’ha – le didascalie che le accompagnano.
Notina: per la foto qui sopra in apertura, l’autore è stato velatamente accusato di antisemitismo, o almeno così gli è parso, chiamandosi suo malgrado davide (e non piacendogli il suo nome).
Post, questo è un post, e nell’infatuazione del tutto post qualcosa, ecco che posto tre estratti testuali depressivi dalle band definite a posteriori post-punk o post-rock.
Generalmente si associa alla nudità una qualche forma di purezza ancestrale da cui segue la locuzione “come natura crea”, ma questo è un altro discorso, qui di seguito si tratta piuttosto del dolore astratto in strofe.
Joy Division – Atmosphere – 1980
Walk in silence,
Don’t turn away, in silence.
Your confusion,
My illusion,
Worn like a mask of self-hate,
Confronts and then dies.
Don’t walk away.
Dinosaur Jr. – Sludgefeast – You’re all living over me – 1987
I’m waiting, please come back
I’ve got the guts now
To meet your eye
Those guts are killing
but I can’t stop now
God Machine – Painless – One last laugh in a place of dying -1994
But I open my mouth but you hear no sound
And you said life could be painless
I’m sorry but that’s not what I’ve found
You said life could be painless
I’m sorry but that’s not what I’ve found
Sull’armadio delle stoffe pesanti c’è la foto del suo unico viaggio in Italia: Roma 1960, Abebe Bikila vince loro nella maratona con i colori dellEtiopia e il connazionale Giovanni Mazzola (Jovani Mazola quando i suoi amici lo scrivono distrattamente) è uno di quelli in primo piano che lo sta portando in trionfo. “Io facevo parte della selezione di ciclismo, ma non andammo a medaglia”. Cinquant’anni dopo Mazzola cesella tessuti in Denkel street, cuore di Asmara che nel frattempo è diventata la capitale dell’Eritrea, indipendente dal 1993 dopo due guerre scriteriate.
Cominciamo da qui, allora, dal tracollo della prima colonia dove gli italiani sbarcarono nel 1865 (Assab), insediandosi definitivamente a Massaua trentanni più tardi e trasferendo solo ai primi del Novecento la capitale ad Asmara. L’Eritrea oggi è un rottame d’Italia dove sopravvivono lasagne e amarcord e cappuccino, certo, e i tombini con la scritta Municipio e i bus riciclati e un arcipelago di paradisi inaccessibili, ma quattro milioni di abitanti sono in balìa d’un dittatore – l’ex eroe della resistenza Isaias Afewerki – e se non ci fosse qualche rimessa dall’estero sarebbero già morti di fame. Quattrocentomila uomini e donne fra i 18 e i 35 anni (un decimo della popolazione) sono sequestrati dalla leva obbligatoria, fantasmi ammassati nelle tende senza luce dei campi al confine con l’Etiopia e incapaci, una volta tornati a casa, di reinserisri in qualche modo nel gi malandato tessuto sociale. Finiscono la scuola (talvolta proprio la scuola italiana, che qui ha 1200 studenti dalle elementari alle superiori e una rotazione annuale di cento insegnanti, ancora pagati dal nostro ministero degli Esteri) e li spediscono a vivere come animali. Quando tornano hanno disimparato tutto, nemmeno sanno più stare in mezzo alla gente e l’unica salvezza è la fuga, in un perverso cortocircuito del destino che muove i barconi verso Lampedusa e il paese dal quale erano stati colonizzati.
Giovanni Mazzola è il figlio di Salvatore, un palermitano del genio civile che arrivò in Africa orientale nel 1935, e di Demechese Gheremeskel, la donna che s’è vista abbandonare alla fine della Seconda guerra dopo aver fatto sette figli: “Le avevano lasciato il mestiere di sarta, ci è bastato per andare avanti”. Giovanni era un campione di ciclismo, che qui è rimasto una specie di sport nazionale e in Italia è stato una volta soltanto, Roma 1960 appunto: “Chiesi ai carabinieri di poter cercare mio padre, mi dissero che non era cosa. Ma io volevo solo salutarlo, non lo avrei accusato”. A 150 metri dal suo negozio c’è il cinema “Impero”, di fianco il caffè “Moderna” e poi la cattedrale cattolica costruita “grazie al generoso oblatore Benito Mussolini”; a tre chilometri in linea daria s’intravede invece lo stabilimento Fiat con le saracinesche sbarrate, perché in Eritrea non si produce più nulla. Gli stipendi dei fortunati che strappano un impiego in qualche meandro dell’opprimente burocrazia non superano gli 800 nakfa al mese, traducibili in 35-40 euro. Il problema è che non tutti i prezzi sono da paese sottosviluppato: un chilo di carne costa 100 nakfa, un rotolo di carta igienica vale oro: 20. Fatti due conti è come se in Italia, con le nostre retribuzioni, un pieno si pagasse mille euro o un chilo di pasta 120. Perciò si vive di riciclo e gli oggetti di latta, pelle, ferro, legno finiscono tutti al mercato Medheber, il vecchio caravanserraglio dove spuntano motrici Iveco anni ’60 e le cose rinascono una, due, dieci volte. Il Medheber è una città nella città dove s’affannano almeno cinquemila persone fra fonderie improvvisate, polvere di ferro, odore di berberé e poi le radio che gracchiano musica italiana anni ’70 o i bambini che usano la fiamma ossidrica prima di andare a scuola. “Questa – scherza Tecle Garhi – è l’unica fabbrica che funziona in Eritrea”.
Garhi è un ex camionista di 67 anni e per una vita ha fatto la spola fra Massaua e Addis Abeba: guidava Fiat da 40 tonnellate che non si sa come riuscisse a trascinare sulle strade che s’arrampicano verso l’Etiopia, sbocco naturale dei commerci in seguito azzerati dalla guerra. Oggi si ferma tutto al valico di Adi Keyh, venti chilometri dal confine, dove i cartelli spiegano ai ragazzini che ci sono ancora mine anti-uomo seppellite nei campi, sospesi sulle rovine di civiltà millenarie o paesaggi che varrebbero miliardi se esistesse il turismo: le montagne dell’Amba Soira disegnano sull’orizzonte un corpo segnato da troppe cicatrici, come lo sono forse tutte queste terre, ed ecco lo stesso groppo alla gola si materializza salendo verso il Sudan. Superata Keren, il più musulmano degli insediamenti eritrei dove gli italiani furono massacrati nel ’44 dagli inglesi è oggi le donne bilene si nascondono dietro occhi troppo scuri e veli ricamati come opere d’arte, il governo blocca l’accesso alle strade e nessuno osa avvicinarsi anche se l’altopiano è un caleidoscopio di forme.
Una delle poche cose indovinate dal ministero – che ha sede nell’ex Casa del Fascio di Asmara e gestisce l’unico quotidiano in vendita per le strade, zeppo solo di propaganda – è lo slogan per descrivere la peculiarità del Paese: “Three sesasons in two hours”, tre stagioni in due ore. Ed è esattamente quello che succede scendendo verso la costa e la caldissima Massaua, lungo la strada che tracciarono gli italiani nel secolo scorso ed è più o meno rimasta la stessa: dai 2400 metri della capitale al livello del mare nello spazio di 110 chilometri, tagliando Ghinda dove i medici italiani si trasferiscono nella stagione della malaria, poi Dongollo dove i bimbi s’arrabattano nelle rovine arrugginite della “Fabbrica acqua termominerale Ali-Hasa”, Dogali e i sobborghi della stessa Massaua: ammassi di lamiera assediati dalla polvere, sotto un sole che le cuoce ad almeno 40 gradi deformando i volti.
E però Massaua è la voglia di esserci con un nodo allo stomaco, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco ridotta a un deserto di speranze. Le dimore bianche retaggio della dominazione turca sono accartocciate su se stesse, la gente imprigionata in casa dall’afa perché i turisti non esistono più, e i ristoranti segnati sulle guide un anno dopo sono già chiusi. Bisogna aspettare il buio e un esercito di ombre si muove senza ordini ma perfetto, la rete sulle spalle dei mariti, i bambini a rimboccare le coperte, le donne che preparano il tè in attesa di dormire fuori e solo così puoi respirare. Le vite all’ultimo stadio nella città fantasma restano appiccicate allo sguardo come il caldo sulla pelle, e non vanno mai via nemmeno nei sogni. Solo la luce livida d’una micro-televisione calamita famiglie e zanzare, la dinamo intermittente di una bici fabbricata a Bologna chissà quanto tempo fa, imbianca una striscia di strada ma non si vede niente. L’insegna del “Golden Navy”, la balera un po’ equivoca messa su per alleviare qualche marittimo, balza agli occhi in mezzo al ricordo proiettato dallo scheletro del vecchio Banco d’Italia, edificio art-deco semidistrutto a due passi dal porto senza navi, che ormai fa soltanto venire i brividi. E poi il neon dell’hotel “Torino” è spento e sulla terrazza non fanno più le feste da ballo che negli anni d’oro calamitavano l’imperatore etiope Haile Selassié, nome vero Ras Tafari ovvero l’uomo da cui i Rasta hanno tratto ispirazione. Per i blitz da Addis Abeba (Etiopia ed Eritrea erano ancora una cosa sola) aveva scelto il palazzo d’un ras ottomano, sebbene qualcuno fosse stato più furbo di lui. L’imprenditore Luigi Melotti, quello che in Africa orientale ha importato la birra, si era fatto costruire una villa spettacolosa in fondo all’isola di Taulud, una delle due che costituiscono Massaua, l’orizzonte stretto fra il giardino e il mar Rosso. Il paradiso di Melotti – tramandato agli eredi che si vantavano d’aver ospitato Giulio Andreotti, Giancarlo Pajetta e Oriana Fallaci – non esiste più, gli sgherri del dittatore Isaias l’hanno raso al suolo nella primavera 2006 per fare un dispetto al primo segretario dell’ambasciata Ludovico Serra, che l’aveva visitata senza chiedere mille permessi: il diplomatico è finito in arresto per tre giorni e poi espulso, mentre la fabbrica della birra (che è stata nazionalizzata e si chiama “Asmara”) oggi è quasi sempre chiusa e una bottiglia al mercato nero costa un decimo dello stipendio medio. Serra non è stato l’unico, a finire nel mirino. Il vecchio Franco Parmesan, che ancora dopo la guerra gestiva l’appalto della nettezza urbana nella capitale ed era un ricco vero, si è visto piombare in casa – nel quartiere Tiravolo ovvero la zona residenziale della capitale – due soldati inviati direttamente dal capo dell’esercito: s’informavano sulla proprietà, il generale era molto interessato e gli è toccato fare la spola con l’Italia per difendere la villa dall’esproprio.
L’Eritrea precipita nonostante il mare che la divide dallo Yemen ospiti un paradiso: isole Dahlak, più belle forse delle Maldive ma (quasi) inavvicinabili. Ci sono solo due barche a pagamento, ma non vanno quasi mai, non c’è nafta. Gli indigeni che popolano i villaggi sugli isolotti cerchiati da mille sfumature d’azzurro qualche volta muoiono di febbre, e supplicano chiunque attracchi di recuperare medicine: Non basterebbero i commerci d’una vita – raccontano le donne che passano gli anni a intrecciare perline – a pagare un solo viaggio sulla terraferma. E l’imprenditore italo-eritreo Giovanni Primo si dispera, visto che i cantieri aperti per costruire un resort da depliant occidentale sono bloccati: il precipizio nel quale corre il paese e l’isolamento totale voluto da Isaias, che ha come migliore amico il sudanese al-Bashir inseguito dallOnu e apre e chiude le Dahlak quando ne ha voglia, spesso trasformano gli affari in un bagno di sangue. Tecle Garhi, quello che faceva l’autista e oggi si è reinventato guida o guardiano per campare, guarda sempre i ragazzi di trenta o quaran’tanni più giovani: ciondolano tutto il giorno, in una nazione che qualche volta nemmeno finisce sulle cartine ed è piena di contadini ghettizzati in esistenze pre-moderne. Lui parla sempre in italiano, anzi dice d’essere mezzo italiano com’era tutto il suo camion. “Non ci sono mai stato, però”. E vista da lì, sembra persino un miraggio.
Distillerie Inga & Co. – Via Garibaldi 10, 150069 Serravalle Scrivia (AL).
La famiglia Inga, originaria della provincia di Siracusa, ha fondato, nel 1832, la Gambarotta.
Nel 1938 Gaetano Inga, dopo aver trasferito l’azienda nell’alessandrino, ne cambiò la ragione sociale in “Distillerie Inga” che, nel 1958, tornò a chiamarsi Gambarotta.
Nel 1978 la società si divise in due parti: Gambarotta e Distillerie Inga.
Queste ultime producevano fino a poco tempo fa grappa, brandy e liquori.
La distillazione avveniva sia con alambicchi tradizionali in rame, a vapore, sia con un impianto a ciclo continuo a vapore diretto.
Le vinacce provenivano prevalentemente dal Piemonte e dall’Oltrepo Pavese.
La ditta ha subito un lento declino e oggi è sotto sequestro.
La distilleria è rimasta attiva fino a marzo 2008 e da un primo contatto telefonico è stato appurato che i lavoratori attivi in fabbrica erano ancora tre.
Gli operai erano disponibili a rilasciare un’intervista, precisando che la fabbrica conservava un vasto materiale relativo alla sua storia.
Purtroppo, il mese successivo, non è stato possibile iniziare la ricerca, a causa del sequestro dell’immobile.
In data 6 marzo 2008 i quotidiani locali hanno riportato la notizia del crollo di un muro adiacente all’autostrada A7 in prossimità di Serravalle Scrivia.
La squadra di distaccamento di Novi Ligure ha abbattuto la parte pericolante del retro della distilleria, già parzialmente crollata nella nottata precedente a causa delle forti raffiche di vento.
La ditta, poche settimane prima del crollo, era già stata posta sotto sequestro su disposizione del Procuratore della Repubblica di Alessandria, dalla Squadra di Polizia Giudiziaria del Comando dei Vigili del Fuoco per gravi inadempienze alla normativa di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Tuttavia, ai fini di un’indagine di carattere archelogico, è importante precisare e analizzare il cattivo stato di conservazione dell’immobilie, che ha portato al crollo del muro posteriore.
Anche la sezione anteriore, come documentato dalla campagna fotografica presenta uno stato di degrado avanzato, che – considerando l’importanza del complesso – necessiterebbe di un intervento di restauro complessivo.
Dalla telefonata effettuata dopo il sequestro, non è chiaro se l’attività sia cessata del tutto o solo sospesa.
La secchezza della lingua inglese agevola l’apertura di questo primo articoletto di Mr Freakpress.
I metadati forniscono informazioni aggiuntive sui dati (oggettuali) a cui sono calblati.
Quello di informazione è un concetto affatto generale in quanto scambiata tra i sistemi al pari di materia ed energia, categorie che verranno presto approfondite in altre pagine.
Tornando ai metadati, l’esempio meno wikipedante che viene in mente è quello della spesa dal fruttivendolo: i metadati sono contenuti sullo scontrino e portano informazioni circa i vegetali considerati come dato, sempre che si abbia la voglia di astrarre in dato qualunque oggetto.
Allo stesso modo ai file, ai dati contenuti su un disco rigido sono associati metadati che informano circa la data di creazione, la data dell’ultima modifica, il peso (che non deve essere così ogni volta ricalcolato dal sistema), l’orientazione orizzontale o verticale della macchinetta, etc, e l’importanza di queste informazioni diventa decisiva, ad esempio, in sede di giudizio, che so, per la verifica dell’alibi di un presunto assassino.
In un mondo astratto in dati, si potrebbero tentare esempi tra i sottili processi della biologia molecolare o rimanere con i piedi per terra e gli auricolari nelle orecchie e pensare a come itunes maneggi con stile e destrezza i metadati cablati in ciascun file audio, tuttavia sarà bene ora sviluppare il tema originario, quello relativo alla fotografia digitale e alle problematiche della sua archiviazione.
Tutte le macchine fotografiche digitali – e in più in generale tutti dispositivi capaci di tradurre immagini in bit, di compiere questa trasformazione dialettica di formato dell’informazione – attualmente in commercio, registrano all’interno di ogni file fotografico una discreta moltitudine di metadati, formattati nello standard EXIF e IPTC, sulla cui definizione non mancano le diatribe tra produttori, ma che forniscono, senza alcuno sforzo per il fotografo, informazioni circa le nostre fotografie: la data e l’ora dello scatto, il modello di fotocamera utilizzato, un’anteprima dell’immagine, i parametri fondamentali dell’esposizione e altre variabili come il bilanciamento del bianco, addirittura le coordinate gps e un file audio per appunti vocali.
I dati EXIF, cablati automaticamente dentro ogni fotografia digitale, costituiscono un vantaggio in comdità rispetto alla fotografia analogica, per la quale era necessario scrivere a mano sul taccuino questi metedati relativi all’esposizione scatto dopo scatto ed eventualmente trasferirli poi col pennarello a margine dei provini o sui telietti delle diapositive. Per avere un’idea di come siano strutturati è sufficiente aprire un file jpeg con un l’editor di testo basilare in dotazione al sistema operativo o usare uno dei software che supportano lo standard EXIF e IPTC.
Questi metadati di argomento tecnico sono tanto importanti per il fotografo maniaco quanto inutili ai fini della divulgazione e dell’archiviazione dell’immagine, rendendo necessaria l’aggiunta manuale di altre informazioni sul frangente della fotografia e sul fotografo che l’ha generata.
Il complesso dei metadati exif (che vengono aggiunti automaticamente) e iptc (che devono essere aggiunti dall’utente) spesso viene chiamato info-file, così come la finestra che dobbiamo richiamare sul nostro software di editing preferito per visualizzare informazioni fotografiche sui file o per scrivere una didascalia appassionata.
Secondo l’opinone di chi scrive l’accostamento di informazioni traforma l’immagine fotografica in maniera profonda, non si tratta di una decorazione inutile, piuttosto di un’ulteriore cornice attraverso cui ri-inquadrare le condizioni al momento dello scatto, restituendo al referente informazioni che gli sarebbero altrimenti negate. Un esempio ne è l’immagine giornalistica che quasi sempre, spogliata della didascalia, perde tanta parte del suo significato (e del suo potenziale valore economico).
Tanto per i fotografi, le agenzie e i clienti finali i metadati sono essenziali per una serie di ragioni: permettono di identificare l’immagine, di descriverla, di storicizzarla, di attribuire il nome dell’autore e i diritti legali di riproduzione, di esprimere caratteristiche tecniche ed emotive che la fotocamera non potrebbe salvare automaticamente, per renderla quindi disponibile ai criteri di ricerca all’interno di un archivio. Senza metadati, la più impressionate tra le foto scattate nel mondo rimane giacente sul fondo di un file-system, muta e irraggiungibile da qualunque query, anonima nel contenuto e nel nome dell’autore che l’ha prodotta, inutile e avviata all’obilio esattamente come se non fosse mai esistita.
Proprio nel mercato del fotogiornalismo, nei primi anni novanta, la International Press Telecommunications Council (IPTC) fondata nel 1965, sviluppa il suo standard di metadati, Information Interchange Model (IIM) che, adottato dalla adobe nel 1995, si impone ed è tuttora il protocollo di metadati fotografici più utilizzato. La formattazione di queste informazioni, annegate in blocco nella codifica del file di immagine, è declinata in campi, organizzati per servire le finalità descrittive, amministrative, tecniche e relative alle gestione dei diritti – le proprietà che trasformano la fotografia in merce e la rendono accessibile al mercato.
Lo scopo di queste poche righe vorrebbe essere il sensibilizzare i fotografi, e in particolare i fotogiornalisti, all’uso di questo standard per le ragioni riassunte qui di seguito:
> l’aggiunta di metadati trasforma la categoria “fotografia” nella categoria “fotografia con didascalia”.
> i metadati descrivono il contenuto dell’immagine con il linguaggio testuale dell’autore.
> i metadati consentono di identificare e tracciare univocamente i file fotografici.
> i metadati relativi all’attribuzione del diritto di riproduzione trasformano la fotografia in merce e sono marcatori essenziali per la sua esposizione sul mercato.
> i metadati rendono le foto accessibili ai criteri di ricerca dell’archivio in cui sono contenute.
> lo standard di metadati IPTC, per quanto soggetto ai capricci dei produttori, è compatibile con la gran parte delle piattaforme software fotografiche.
> i metatadi sono condizione necessaria per l’esistenza di una fotogrfaia digitale all’interno di un sistema.
Per chi volesse approfondire l’argomento IPTC, questo è un buon documento, e qui c’è un elenco di software che lo supportano.